Padre, a volte non dormi?

Dante, Pasolini e Fallaci rileggono il Padre Nostro nel tempo: fede, dubbio e dolore in una preghiera che attraversa secoli e coscienze.

Padre Nostro nel tempo: Dante, Pasolini e Fallaci interrogano Dio

«L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni.»
Italo Calvino

Padre Nostro nel tempo: tre visioni, una preghiera – Pasolini, Fallaci e Dante a confronto

Quando si parla del Padre Nostro, la preghiera cristiana per eccellenza, è impossibile non pensare alla sua forza universale, alla sua capacità di attraversare epoche e visioni del mondo diverse, di adattarsi ai tempi e alle storie di chi la pronuncia. Non è solo una formula religiosa, ma un gesto di speranza, di invocazione, un grido che nasce dal cuore umano. Tuttavia, cosa accade quando pensatori e artisti si appropriano di questa preghiera per fare i conti con le contraddizioni del loro tempo? La risposta viene da voci forti e contrastanti, come quelle di Pier Paolo Pasolini, Oriana Fallaci e Dante Alighieri.

Dante, nel Purgatorio, inserisce il Padre Nostro nelle parole dei superbi. Non è un atto di fede tradizionale, ma un momento di confessione, una preghiera che si fa domanda. Lontani dalla visione trionfante e purificatrice della preghiera, i superbi la recitano come un atto di dolore e di speranza. Il loro Padre Nostro è quello di chi ha preso coscienza delle proprie colpe e della propria vanità, e lo esprime con una verità dura e bella.

«Nostra virtù che di legger s’adona,
non spermentar con l’antico avversaro,
ma libera da lui che sì la sprona.
Quest’ultima preghiera, Signor caro,
già non si fa per noi, ché non bisogna,
ma per color che dietro a noi restaro.»

Per Dante, il Padre Nostro non è un semplice atto di devozione, ma una riflessione sull’umiltà e sul peccato. È una preghiera che ci interroga, che ci fa guardare la nostra fragilità.

Pasolini: Una preghiera di disperazione

Poi c’è Pier Paolo Pasolini, che offre una lettura di questa preghiera assolutamente fuori dagli schemi. In Affabulazione, Pasolini ci presenta un uomo borghese, rispettabile, che, davanti alla rivelazione di un sogno che lo scuote, si ritrova a confrontarsi con Dio, a interrogarsi su tutto ciò che aveva dato per scontato. Il suo Padre Nostro è un grido che nasce da una sofferenza profonda, dalla crisi della propria identità e dalla consapevolezza che la moralità tradizionale non basta più a rispondere alle domande esistenziali. Pasolini trasforma la preghiera in un atto di spoliazione, di messa a nudo, dove il rispetto e la buona educazione, simboli della sua appartenenza alla borghesia, perdono valore di fronte alla presenza divina.

«Padre nostro che sei nei Cieli!
Che me ne faccio della mia buona educazione?
Chiacchiererò con Te come una vecchia…
Padre nostro che sei nei Cieli,
cosa me ne faccio della buona reputazione?
Che me ne faccio di questa persona
così ben difesa contro gli imprevisti?»

La sua non è una blasfemia, ma una sorta di risveglio. Un uomo che ha vissuto nel rispetto delle regole sociali, ma che scopre, nel confronto con Dio, l’inutilità di queste regole di fronte all’immensità dell’esistenza e della sofferenza umana. Non è una preghiera di chi si arrende, ma di chi sta finalmente facendo i conti con la propria vulnerabilità e la propria disperazione.

Fallaci: Un grido di disillusione

Infine, Oriana Fallaci porta questa riflessione su Dio in una direzione ancora più drammatica e spietata. Nel suo libro Niente e così sia, scritto durante il conflitto del Vietnam, Fallaci scrive una versione del Padre Nostro che è tutto fuorché religiosa. È un’autoaffermazione della propria disillusione, una preghiera che esprime il vuoto e la frustrazione di chi è stato testimone di orrori senza fine. La sua invocazione a Dio non è quella di un credente, ma di una persona che ha visto la miseria umana e che non ha più speranza in niente. Eppure, anche in questa preghiera amara, la Fallaci ci restituisce la forza di un grido che nasce da un amore inespresso, dal bisogno di capire se Dio ci sta veramente guardando.

«Padre nostro che sei nei cieli,
dacci oggi il nostro massacro quotidiano,
liberaci dalla pietà, dall’amore,
dalla fiducia nell’uomo.
Dall’insegnamento che ci dette tuo Figlio.
Tanto non è servito a niente,
non serve a niente.
A niente. E così sia.»

Qui non c’è spazio per la speranza che caratterizza la preghiera cristiana tradizionale. La Fallaci ci presenta una visione spietata del mondo, dove Dio, se c’è, sembra essere distante e muto. Ma c’è anche un’urgenza: quella di non rimanere in silenzio, di fare i conti con il dolore e la solitudine che segna la vita umana. Non è una preghiera di fede, ma di consapevolezza. Di rabbia. E, se vogliamo, anche di disperata ricerca di una verità che sembra sfuggire.

Un Padre Nostro per il nostro tempo

Nel confronto tra queste voci, emergono inquietudini universali: la ricerca di Dio, la crisi della fede, il bisogno di una risposta alle ingiustizie e alle sofferenze. Quello che Pasolini, Fallaci e Dante ci regalano non è una preghiera facile, non una formula rassicurante. È una preghiera che si fa domanda, che si fa bruciante, che si fa necessaria.

E allora, forse, la nostra preghiera dovrebbe essere questa:
Padre nostro che sei nei cieli, e anche sulla terra,
nel fango, nel vuoto, nelle parole non dette.
Non lasciarci soli, nelle notti che sembrano eterne.
Nel buio dove non Ti sentiamo.
Veglia Tu, se noi non riusciamo più a farlo.

Un Padre Nostro che non chiede risposte semplici, ma che si offre come strumento per affrontare la complessità della nostra esistenza. Un Padre Nostro che riconosce il buio, ma non si arrende. Così sia.

di Caro Di Stanislao

La Redazione de La Dolce Vita
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